Standing on the Shoulders of Giants (no, non è un articolo sugli Oasis, ma sull’attivismo online)

Standing on the Shoulders of Giants (no, non è un articolo sugli Oasis, ma sull’attivismo online)

“Immigrati: quanti ancora ne possiamo prendere?” (Daily Mail – 27/08/2015)

“Lo ‘sciame’ nelle nostre strade.” (Daily Mail – 31/06/2015)

“4.000 assassini e stupratori stranieri di cui non possiamo sbarazzarci.” (Daily Mail – 02/01/2013)

Era il 2015 quando l’alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, Zeid Ra’ad Zeid Al Hussein, espresse una ferma condanna contro i tabloid britannici per i decenni di disinformazione, alterazione della realtà e offese perpetrate ai danni degli stranieri – fossero essi immigrati o richiedenti asilo. Alla condanna per una pratica tanto duratura quanto senza misura si accompagnava un accorato invito a mettere un freno a tutto quell’incitamento all’odio presente nelle prime pagine, ad esempio, di The Daily Mail e The S*n. Eppure, da allora, la situazione non solo non è cambiata, ma si è addirittura esacerbata, di pari passo con la preoccupazione e l’indignazione di larga parte del pubblico, non solo britannico. E anche con un fastidioso senso di impotenza. Perché – siamo onesti – quante volte allo sdegno abbiamo pensato di poter far seguire un’azione davvero efficace? Del resto, come avere anche solo l’ardire di pensarlo, se persino le raccomandazioni delle Nazioni Unite restano inascoltate e disattese?
E allora quali strumenti possiamo mai avere per contrastare questa demonizzazione del diverso? E quali mezzi per fermare questa cultura dell’odio che, dalle prime pagine dei tabloid e dalle homepage dei siti online, sta avvelenando non solo il clima politico, ma la società civile tutta?

Alcuni episodi passati e recenti sembrano suggerire che qualche mezzo per esprimere il nostro dissenso – e magari per provocare un cambiamento, seppur piccolo – in realtà ce l’abbiamo. E che in fondo, a seconda del momento storico, siamo in grado di trovare e adottare mezzi sempre diversi e mai banali. Per restare in Gran Bretagna, erano gli anni ’30 quando nell’ebraica East End, a Londra, vennero bruciate delle copie del Daily Mail in risposta all’endorsement fatto in prima pagina al fascista britannico Oswald Mosley e al suo movimento pro-nazista Blackshirts. Ed erano quasi gli anni ’90 quando a Liverpool ebbero la stessa reazione davanti alla prima pagina del S*n, in cui, sotto al titolo The Truth, si raccontava in realtà una vergognosa menzogna, che attribuiva ai tifosi del Liverpool Football Club la responsabilità di una delle più grandi tragedie della storia (non solo sportiva) britannica, quella di Hillsborough. Se per vedere riconosciuta la Verità le famiglie delle vittime e i superstiti hanno dovuto aspettare 27 anni, per altrettanti anni – e oltre – è durato il boicottaggio ai danni del S*n, che Chris Horrie stima sia costato a News International, editore del più venduto tabloid del Regno Unito, £15 milioni al mese negli ultimi 28 anni. Ed eccoci di nuovo ai giorni nostri, quando proprio il fattore economico è stato individuato come la possibile chiave di volta nella lotta contro l’hate speech da due gruppi di attivisti online, nati a breve distanza l’uno dall’altro (rispettivamente in Gran Bretagna, dopo il referendum sulla Brexit, e negli Stati Uniti, dopo le elezioni presidenziali che hanno visto trionfare Donald Trump): Stop Funding Hate e Sleeping Giants.

Qual è la proposta che accomuna questi due movimenti? Fermare l’hate speech “chiudendo i rubinetti” a tabloid e siti online incriminati, ossia privandoli degli investimenti pubblicitari che ne assicurano sopravvivenza e successo. E qual è il loro modus operandi? Contattare direttamente gli investitori – via email o social media – chiedendo loro di smettere di finanziare l’odio. In entrambi i casi la parola magica, per coinvolgere e convincere gli investitori, è brand reputation. È ormai risaputo, le maggiori compagnie si raccontano (e raccontano i propri prodotti e servizi) attraverso un insieme di valori con cui intendono essere identificate: solitamente rispetto, inclusione, generosità. E allora, si chiedono gli attivisti di Stop Funding Hate e di Sleeping Giants, come è possibile che le stesse compagnie investano del denaro per acquistare spazi pubblicitari su tabloid e siti online che incarnano “valori” e veicolano messaggi diametralmente opposti? Di più: come è possibile che re-investano il denaro dei consumatori, che si riconoscono nei valori proclamati dalla compagnia, in qualcosa di completamente antitetico? Sono domande, queste, che molte aziende non possono (permettersi di) lasciare senza risposta ed ecco quindi che già a novembre 2016 Stop Funding Hate ha fatto registrare il primo successo: un cambiamento nella politica pubblicitaria della LEGO, in particolare attraverso la sospensione della sua attività promozionale sul Daily Mail.

Insomma, attenzione (e potere) ai consumatori e ai loro valori, ma non solo: attenzione (e tutela) anche per le aziende. E sì, perché molto spesso, soprattutto nel caso della pubblicità online e del cosiddetto programmatic ad, sono proprio le stesse compagnie a non essere informate su che piattaforme e accanto a che contenuti finiscano le loro pubblicità. È quanto accaduto a marzo con il caso Google e Youtube ed è quanto gli attivisti di Sleeping Giants stanno chiedendo a migliaia di aziende: ad esempio siamo davvero sicuri che siano in così tante a voler acquistare spazi pubblicitari sul sito di estrema destra Breitbart, spesso accusato di pubblicare false notizie razziste, misogene, omofobe e islamofobe? Non è poi una sorpresa che 2.146 aziende abbiano già risposto che no, non vogliono.

Ecco allora che in gioco, insieme alle maggiori compagnie, entrano le agenzie pubblicitarie e le piattaforme tech, anch’esse chiamate ad assumersi le loro responsabilità, che, come dichiarato da Randall Rothenberg durante lo IAB Annual Leadership Meeting, non sono e non devono essere solo professionali, ma anche civiche. Basta quindi finanziare siti tossici a causa di uno zelo da mad metrics, della volontà di costruire o inseguire un’audience ampia a poco prezzo, senza però fornire o disporre dei mezzi adeguati per monitorarla in modo appropriato ed efficace. E ancora basta nascondersi dietro al mito della neutralità della tecnologia o alla filosofia libertaria della Silicon Valley, secondo cui internet deve restare libero e aperto (anche all’odio?). E infine basta alla scusa di essere un mero mezzo per la veicolazione dei contenuti, senza quindi preoccuparsi di quali essi siano o accanto a cosa essi siano collocati.

È evidente, tanti sono gli interrogativi, al tempo stesso tecnici ed etici, che le azioni di Stop Funding Hate e Sleeping Giants fanno sorgere in seno alle aziende, alle agenzie pubblicitarie, agli editori e alle compagnie tech. È altrettanto evidente però che resta un punto fermo da cui partire: la libertà di espressione non può coincidere con la libertà di esprimere odio e in tal senso tutti abbiamo un compito nella costruzione di una cultura che sia davvero libera, inclusiva, aperta a tutti.

E tuttavia non vi sembra che in questa chiamata alla responsabilità civica manchi qualcuno? A noi sembra proprio di sì: il settore non profit. E allora ci, vi chiediamo: non sarebbe naturale aspettarsi una partecipazione, un coinvolgimento attivo da parte delle onp su una tematica come questa, che afferisce a valori come libertà di espressione e di stampa, rispetto dei diritti umani, contrasto all’hate speech? E ancora: non sarebbe altrettanto naturale aspettarsi che il settore non profit accompagni, e magari moderi, questa forma di attivismo online e il conseguente dibattito e in qualche modo ne raccolga l’eredità, diventi il depositario delle sue istanze, fino magari a formulare delle proposte o addirittura partecipare all’emanazione di una regolamentazione?

È in questa direzione che sta cercando di muoversi ad esempio la Commissione della Camera dei Deputati intitolata a Jo Cox, costituita ad hoc nel maggio 2016 per redigere una sorta di rapporto sull’odio in Italia ed emanare, in collaborazione con varie associazioni per la difesa dei diritti umani, tra cui Amnesty International e UNHCR, una Carta dei doveri di Internet. E non vi sembra forse questo un esempio da seguire? Per noi sì, perché secondo la cultura anglosassone ci sono altri giganti, quelli sulle cui spalle si può poggiare un cambiamento significativo per il futuro. E, per parafrasare Isaac Newton, sarebbe bello che, se riuscissimo a vedere più in là, fosse (anche) per merito di quei meravigliosi giganti che sono le onp.