“Sbagliando si impara”: ecco perché al FFR 2017 ho chiuso un cerchio

“Sbagliando si impara”: ecco perché al FFR 2017 ho chiuso un cerchio

La mia prima volta al Festival del Fundraising è stata una sorta di chiusura di un cerchio.

Naturalmente, è stata un’opportunità davvero preziosa per vedere, ascoltare e conoscere una serie di professionisti straordinari del nostro settore (Chris Innes e Jeff Brooks tra tutti), dai quali non posso che far altro che imparare, imparare, imparare.

Però è stata anche, lo ripeto, l’occasione giusta per chiudere un cerchio.

Mi spiego meglio.

Avete mai sentito il detto “Sbagliando si impara”?

Io, per esempio, ricordo che le mie maestre delle elementari lo ripetevano ossessivamente per incitare noi, una ventina di alunni avvolti in grembiulini bianchi e blu, a provare, a sperimentare, a lanciarci anche e soprattutto nelle sfide che ci sembravano più complicate. Perché per quanto potessimo sbagliare, in realtà noi da quegli errori avremmo imparato tanto e, con molta probabilità, in futuro non saremmo più “caduti” nelle stesse trappole. Ma io ero una bambina (e poi una pre-adolescente e poi un’adolescente e poi una ragazza) troppo convinta che errore fosse sinonimo di “farai una figura pessima e tutti rideranno di te”, quindi quella frase mi è sempre suonata strana, per non dire inaccettabile.

Non voglio scrivere un pezzo su un presunto “elogio dell’errore”, ma quello che sto constatando crescendo (crescendo almeno un pochino) è che, è vero, la perfezione non esiste. Che, è vero, il rifiuto dello sbaglio (e la sua sottovalutazione) è quello che poi ci farà sbagliare peggio e di più. Che, è vero, se sbagli, qualcuno penserà che sei scemo, ma tu avrai messo da parte un insegnamento.

In questo senso, per me, il Festival è stato ben più che prezioso, perché ciò che ho portato a casa dalla “tre giorni” veronese è un insegnamento importante: ogni errore può equivalere a un miglioramento. (Se state pensando che stia sostenendo un’ovvietà, provate a farvi questa domanda: quanto sono disposto a dare davvero un’altra chance a una persona che sbaglia, senza bollarla come “quella che sbaglia/quella incompetente/quella stupida”?).

Partendo dalla plenaria di apertura, le storie raccontate (forse troppo frettolosamente, ahimè) sono state infatti storie di riscatto: storie di professionisti, ma prima di tutto di persone, che hanno saputo trasformare un fallimento in un’opportunità. E così, Giancarla Pancione ci ha parlato di quella volta che ha preferito puntare sull’individualismo invece di condividere le sue idee con un team che, molto probabilmente, l’avrebbe aiutata a individuare per tempo gli errori di un DM; Alessandro Betti ci ha ricordato che non provare a migliorare qualcosa per il solo fatto che quella cosa è sempre andata così è deleterio; Francesco Ambrogetti ci ha spiegato l’imbarazzo di dover (quasi) restituire 10 milioni di euro a un grande donatore e Annalaura Anselmi ci ha raccontato di quando la sua campagna DRTV aveva clamorosamente fallito.

Cos’hanno in comune queste quattro storie? Il fatto che degli errori si siano poi trasformati in vittorie, grazie a una buona dose di umiltà e tenacia, a tanta analisi dell’errore (da cui imparare) e una buona quantità di fiducia da parte dei colleghi.

Nella plenaria conclusiva, poi, Francesca Fedeli ci ha dimostrato che una situazione difficile come quella di avere un figlio colpito da una disabilità molto grave può essere affrontata in un modo che la maggior parte di noi, forse, non riuscirebbe neppure a immaginare. Come? Cambiando prospettiva rispetto alla condizione di partenza. Trasformandosi da genitore “condannato” ad accettare passivamente quella disabilità a guerriero che decide di percorrere una strada nuova.

E i ragazzi dell’Orquestra de Riciclados de Cateura hanno suonato, davanti a un pubblico entusiasta e incredulo, il Canone di Pachelbel (e molto altro) usando strumenti musicali nati dai rifiuti. Un’ulteriore dimostrazione del fatto che da un errore –in questo caso, da uno scarto- può nascere qualcosa di straordinario. Non è un caso che il motto di Favio Chàvez, Maestro di questo inusuale ensemble, sia il mondo ci ha dato rifiuti, noi gli restituiamo musica.

Quello che mi ha lasciato il Festival del Fundraising, insomma, oltre a una serie di spunti tecnici e pratici su come, nella mia professione, potrei evitare di sbagliare, è che osare non è sempre sconsigliabile. Certo, bisogna farlo con una forte consapevolezza dei propri limiti e di quelli altrui e preferibilmente con il supporto di una squadra (la tua).

Però l’immobilismo, il sedersi sull’ “è sempre andata così, quindi è giusto che continui a funzionare così”, la mancanza di curiosità verso i cambiamenti che stanno investendo il mondo in generale e quello della comunicazione e della raccolta fondi in particolare, alla lunga, potrebbero trasformarsi in ostacoli insormontabili per le organizzazioni e per il loro miglioramento.

Tutto questo non significa che un cambiamento sia sempre positivo in quanto cambiamento (appunto) o che qualsiasi cambiamento vada inseguito affannosamente, senza riflettere, senza pensare alle conseguenze. Tutt’altro.

Questo significa soltanto che un po’ di coraggio in più non guasterebbe, nonostante la possibilità di sbagliare sia dietro l’angolo. E al Festival ce lo hanno detto in tanti, da chi ha “imposto” piani strategici in onp che sembravano assolutamente sorde a questa richiesta, fino a chi ha rivoluzionato DM e DEM perché il target era cambiato, orientandosi verso gusti nuovi che, nell’ottica della raccolta fondi, andavano studiati, compresi, seguiti.

Perché spesso, per migliorare, “basterebbe” per esempio puntare su studi e analisi a cui non avevamo pensato per la nostra DRTV o inserire della carta da regalo nel pacchettino che inviamo ai nostri donatori per Natale. “Basterebbe” imparare a raccontare le nostre storie anche sul web e sui social, coordinando immagini e testi (se pensate sia una banalità, vi sbagliate). O, ancora, nel caso di un’iniziativa di piazza, “basterebbe” porsi una domanda: è davvero il caso che io distribuisca questo prodotto in questo periodo dell’anno? (il cioccolato è meglio d’inverno o in primavera?!).

Piccole cose, dunque, piccoli salti che sembrano inezie ma non lo sono, che ci costano fatica, che ci richiedono tanto impegno e tanto lavoro; sforzi creativi e operativi che -certo- potrebbero fallire, ma che invece, dall’altra parte, potrebbero determinare la nostra svolta. E se anche così non fosse, potremmo comunque portare a casa un insegnamento e su questo ragionare, ripensare, rivedere, riorganizzare, riprovare. In ogni caso, non fermarci, se la direzione è quella giusta. Certo, per “provare” è necessario utilizzare le donazioni di chi crede in noi, ma è per forza sbagliato investire qualche denaro in più in qualcosa che, a medio e lungo termine, potrebbe consentirci di operare ancora meglio?

Ecco, questo è il cerchio che ho chiuso io, che per la prima volta ho partecipato al Festival, a metà tra l’affascinato e l’intimorito davanti a colossi del mondo della raccolta fondi. Una lezione che, ne sono certa, mi servirà professionalmente e umanamente.

…beh, “chiuso”. Ora non esageriamo. Diciamo che questo è il cerchio che voglio provare a chiudere.

Diciamo che è il mio proposito per il 2017: ricordare che avevano ragione le mie maestre e che “sbagliando si impara”. Ma soprattutto che, a volte, è meglio rischiare e sbagliare piuttosto che restare immobili e non evolversi mai.