All we need is… a like?

All we need is… a like?

Likes don’t save lives. Money does.

Così nel 2013 UNICEF Svezia, con una campagna informativa tanto provocatoria quanto puntuale, ci ammoniva e al tempo stesso cercava di affrontare una delle insidie che Facebook sembrava portare nel mondo del non profit: il cosiddetto attivismo da click o clickattivismo, ossia la tendenza, diffusa tra gli utenti dei social network, a sostenere una causa non con azioni concrete, prime tra tutte le tanto agognate donazioni, ma a colpi di like, share e commenti. Il messaggio rivolto ai clickattivisti era dunque chiaro: non basta un mi piace su Facebook per cambiare le cose nel mondo, o meglio non basta se non è accompagnato da un impegno attivo, costante, concreto.

È evidente come la campagna di UNICEF Svezia affondasse le sue radici in un assunto da allora abbracciato e fatto proprio da (quasi) tutte le onp: like e donazioni non vanno di pari passo, anzi sono addirittura antitetici, Facebook (e in generale i social network) può rivelarsi utile al non profit semplicemente come strumento di comunicazione e visibilità, non di raccolta fondi. Ebbene, a distanza di quattro anni da quella campagna, vogliamo mettere un po’ in dubbio quell’assunto e chiederci: è davvero così? È sempre vero che l’attivismo online sia superficiale e disimpegnato, che un like si traduca raramente in una donazione, insomma che su Facebook non si possano salvare vite?

Recentemente Gianluca Diegoli ci ha suggerito che no, non è sempre vero, anzi. E lo ha fatto a partire da un esempio concreto e molto noto: la raccolta fondi lanciata su Facebook dalla cantante Ariana Grande a sostegno delle vittime dell’attentato di Manchester.

Iniziamo con il far parlare i numeri: l’importo della raccolta fondi è di 454.400 dollari, le persone che hanno donato sono circa 23.000, con una donazione media di circa 20 dollari. L’analisi diventa ancora più interessante però se ci concentriamo su altri dati, ad esempio sul rapporto tra il numero di reazioni/like e i fondi raccolti: pur nella consapevolezza che non ci sia una relazione di causa-effetto diretta, emerge tuttavia che anche una reazione/like ha un valore in donazione (17 centesimi per la precisione). E che dire poi del tasso di conversione (rapporto tra numero di reazioni/like e persone che hanno donato), non lontano da quell’1% spesso assunto come benchmark nell’ecommerce?

I numeri parlano, eccome, e ci dicono che le reazioni/like non restano sempre e solo tali e che i clickattivisti sono in realtà, secondo la definizione di Diegoli, dei riservisti, ossia delle persone pronte a trasformarsi in attivisti, e quindi in donatori, a seconda della situazione, del coinvolgimento emotivo e degli strumenti a propria disposizione. E Facebook lo ha capito molto bene: per questo motivo sta introducendo, per ora solo negli Stati Uniti e in fase sperimentale, dei nuovi strumenti per il fundraising che arrivino a ingaggiare sempre di più la propria base di utenti e a configurare lo stesso canale social come una piattaforma di personal crowdfunding.

Le persone e la rete di relazioni quindi: per prima era arrivata nel 2016 la possibilità, per gli utenti statunitensi, di creare pagine di raccolta fondi a nome di una onp; a marzo 2017 è stato invece il turno di personal fundraiser, tool che, in modo molto simile a GoFundMe o JustGiving’s Crowdfunding for Good, permette agli utenti di raccogliere fondi per se stessi, per un amico o per qualcuno o qualcosa non presente sul social network, ad esempio un animale (no, non tutti hanno la propria pagina personale).

Fin qui però nessuna novità rispetto alle più diffuse piattaforme di crowdfunding. La vera differenza, la nota distintiva è altrove ed è racchiusa in una semplice espressione: direttamente su Facebook. L’elemento che può rendere la creazione di Mark Zuckerberg un nuovo potente strumento di raccolta fondi, addirittura in concorrenza con le stesse piattaforme di crowdfunding, è la possibilità di far confluire il coinvolgimento personale degli utenti e la raccolta fondi in strumenti interni a Facebook e soprattutto in un ambiente che tutti frequentiamo ogni giorno.

Così accade ad esempio nel caso di Birthday fundraising, una funzione che ricorda agli utenti (per ora sempre e solo statunitensi) che possono donare il proprio compleanno a una causa sociale (e naturalmente invitare i propri parenti e amici a fare una donazione invece di – o in aggiunta a – un regalo). O ancora nel caso del bottone Donate, che ora può essere aggiunto anche alle dirette.

E così accade soprattutto per l’atto pratico della donazione, che può essere completata direttamente su Facebook, senza dover abbandonare il social network per collegarsi a siti esterni. Il problema che di solito le campagne di crowdfunding pongono agli utenti è infatti il seguente: per donare, è necessario andare sulla piattaforma di crowdfunding prescelta (prima frizione), inserire informazioni personali e dati di pagamento (seconda frizione), ritornare su Facebook per condividere la campagna con i propri amici (terza frizione). Ciò che Facebook vuole offrire è invece una totale assenza di frizioni: la possibilità di creare campagne di raccolta fondi che possano essere scoperte, sostenute e condivise dagli utenti in un unico luogo, senza interrompere la propria Facebook experience. E di conseguenza l’opportunità di assottigliare sempre di più la distanza che separa un like da una donazione (un bene per l’utente, per la causa beneficiaria, ma anche naturalmente per Facebook).

L’obiettivo finale, per tutti, è di connettere le persone in modo da creare una community internazionale che sia (anche) solidale e che sì, si impegni attivamente e concretamente per salvare vite.

E allora forse, in attesa che gli strumenti adatti arrivino anche in Italia, occorre iniziare a prepararsi.

And yes, everything starts with a like.